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2016/06/12

Maschi che uccidono femmine...


Sui maschi che uccidono o sfregiano la femmina che li rifiuta (con lo scopo, lucidamente feroce, di renderla "inservibile" ad altri maschi) si esercitano molto le discipline psicologiche, criminologiche e antropologiche, come è utile e anzi indispensabile che avvenga. Ma credo - e lo dico da maschio - che su quella rovente, tremenda questione, non si eserciti abbastanza la parola politica.

Al netto dei materiali psichici complessi e oscuri che ci animano, molti dei nostri comportamenti sono determinati dalle nostre convinzioni e dalle nostre idee. Ciò che siamo è anche ciò che vogliamo essere. O che tentiamo di essere. Se non rubiamo non è solamente per il timore della punizione, o perché non ne abbiamo la stretta necessità economica. È perché abbiamo ripugnanza etica del furto.

Quando ero ragazzo, negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo, si è decisamente sopravvalutato il potere che le convinzioni e le idee potessero esercitare sulla nostra vita; vita quotidiana compresa. "Il privato è politico", si diceva allora, volendo significare che ogni nostro atto, anche domestico, anche invisibile alla Polis che tumultuava e rumoreggiava sotto le nostre finestre, avesse valore pubblico e producesse il suo effetto politico. 

Era una forzatura ideologica che l'esperienza provvide, per nostra fortuna, a sdrammatizzare e infine a diradare, facendoci sentire un poco meno "responsabili del mondo" almeno dentro i nostri letti, un poco meno sottomessi al Dover Essere ideologico. Vennero scritti libri e girati film sulla presuntuosa goffaggine che pretendeva di avere instaurato, in quattro e quattr'otto, libertà di costumi e liberalità di sentimenti. Non erano così facilmente arrangiabili, i sentimenti e gli istinti, alle nuove libertà. Non così addomesticabili il dolore inferto e subito, l'abbandono, la gelosia.

Ma la decompressione ideologica dei nostri anni è funesta in senso contrario. Le idee, che a noi ragazzi di allora parvero fin troppo determinanti, oggi vagolano in forma di detriti del passato oppure di scontate banalità. Hanno perduto molto del loro appeal: in positivo, perché è finita la sbornia ideologica, ma anche in negativo, perché molte fortissime idee hanno perduto la loro presa sul discorso pubblico, impoverendolo e istupidendolo. 

Per esempio l'idea - e veniamo al punto - che la donna appartenga a se stessa ("io sono mia"), che la sua persona e il suo corpo non siano mai più riconducibili alle ragioni del patriarcato e del controllo maschile. Se c'è mai stata, al mondo, un'idea rivoluzionaria, è quella: ribalta una tendenza millenaria, smentisce spavaldamente la Tradizione, muta la struttura sociale perfino più radicalmente di quanto la muterebbe la sovversione della gerarchia padrone-operaio. Perché non se ne sente più l'eco, di quello slogan così breve e di così implacabile precisione? Forse perché lo si dà per scontato (non essendolo!); forse perché nessun "principio" assoluto riesce più a ottenere credito in una società smagata, relativista più per sfinimento che per cinismo.

Eppure, volendo ridurre all'osso la questione del femminicidio, è proprio l'ignoranza o il rifiuto maschile di quel principio - io sono mia - il più evidente, perfino il più ovvio di tutti i possibili moventi. No, tu non sei tua, tu sei mia. Il mio bisogno è che tu stia con me, e del tuo bisogno (non stare più con me) non ho rispetto, o addirittura non ne ho contezza. Tu esisti solamente in quanto mia; in quanto non mia, esisti talmente poco che cancello la tua vita. Certo, la stratificazione psichica è profonda, cause e concause si intrecciano, paure e debolezze si sommano producendo, nei soggetti più sconquassati, aggressività e violenza. Ma il "via libera" all'aggressione, alla persecuzione, allo stalking, al delitto scatta anche perché nessuna esitazione "ideologica" interviene a soccorrere il carnefice, nessuna occasione di dibattito interno gli è occorsa, a proposito di maschi e di femmine.

Politica e cultura (ovvero: il processo di civilizzazione) esistono apposta per non abbandonare la bestia che siamo alla sua ferinità e ai suoi istinti, regolando in qualche maniera i rapporti sociali, rendendoli più compatibili al bisogno di incolumità e dignità di ogni persona. Questo non esclude, ovviamente, che ci siano stalker e aguzzini di buona cultura e di idee liberali. Ma è l'eccezione che conferma la regola: costumi e comportamenti di massa sono largamente influenzati, e sovente migliorati, dalla temperie politica e culturale dell'epoca. 

È nell'Italia rinnovata e modernizzata degli anni Sessanta che la contadina siciliana Franca Viola si ribella al ladro del suo corpo e pronuncia, entusiasmando milioni di spiriti liberi, il suo semplice ma inequivocabile "io sono mia" prefemminista e presessantottino, con la mitezza luminosa di una Lucia aggiornata che rimette al suo posto il donrodrigo di turno. È sempre in quell'Italia che, con fatica, si arriva finalmente a mettere in discussione l'obbrobrio giuridico del "delitto d'onore", che verrà finalmente cancellato vent'anni dopo. Ed è a livello popolare, mica solo nei "salotti", è nel profondo della società che quei fermenti circolano, quelle discussioni si animano, quei confitti indirizzano il senso comune.

Non so quanto dipenda dalla mia storia psichica o dalle mie attitudini caratteriali il fatto che io non abbia mai alzato un dito su una donna. Ma so per certo che dipende in buona parte, per dirla molto banalmente, dalla mia volontà di non farlo; dalla mia educazione e dall'esempio ricevuto in famiglia; dalle mie inibizioni culturali, che mi fanno considerare indegna e vile la sopraffazione dell'altro; infine, e non ultimo, dalle mie convinzioni politiche, che mi conducono fortemente a credere che la libertà delle donne sia condizione (forse la prima condizione) della libertà di tutti.

Come disse a milioni di persone, con la sua ruvidezza a volte così necessaria, Luciana Littizzetto al Festival di Sanremo di qualche anno fa, "chi picchia una donna è uno stronzo". Poi, certo, è soprattutto di aiuto, di assistenza e perfino di pietà che hanno bisogno anche gli stronzi, soprattutto gli stronzi. Ma la prima domanda da porre, al femminicida in carcere o in altro luogo di recupero e cura, è sempre e solamente una, semplice, facile da capire, ineludibile: ma non lo sapeva, lei, che le donne non sono di sua proprietà? Non glielo aveva mai spiegato nessuno?

femmine, omicidio, maschi, maschilismo, macho, uomo, donna, moglie, fidanzata, possesso, mia, uccidere

2016/06/04

Metabolismo e digiuno



Chi vi scrive le ha provate tutte. Dalla dieta Dukan al digiuno intermittente, passando attraverso mille altri sistemi magici e miracolosi che avrebbero dovuto ridurre drasticamente il peso e aumentare la mia autostima. Naturalmente nulla ha realmente funzionato.

Pochi mesi fa mi sono imbattuto in una nutrizionista con idee innovative. Fermo restando che le scelte sono solo mie, lei mi ha convinto che un ulteriore tentativo sotto il suo controllo era opportuno doverlo tentare. Ho appena iniziato, quando avremo terminato (avremo perché il processo coinvolge tutta la famiglia, anche se poi a digiunare sono solo io) vi informerò.

Nel frattempo cerchiamo insieme di capire come e perché digiunare fa bene all'organismo.

La vita si basa sui due processi fondamentali di nutrizione e eliminazione: nel momento in cui sospendiamo la nutrizione, l’organismo ha a disposizione un maggiore potenziale energetico indispensabile all’eliminazione delle scorie e dunque il digiuno diventa una importante terapia depurativa .

Il nostro metabolismo ossia quel complesso di trasformazioni biochimiche ed energetiche che avvengono nell’organismo, che riguardano le modificazioni di sostanza nelle diverse fasi del ciclo vitale (accrescimento, equilibrio, involuzione) e le trasformazioni dell’energia chimica delle sostanze alimentari in calore o in lavoro meccanico, si regge su due attività in equilibrio che si succedono e si sovrappongono continuamente: un momento sintetico, detto anabolismo, per mezzo del quale si ha la formazione della sostanza propria e specifica di ogni singolo organismo ed organo o l’immagazzinamento di materiale di riserva, a spese delle sostanze nutritive che esso riceve dall’ambiente esterno e utilizza per accrescersi, per mantenersi e per riparare la continua usura; il momento demolitivo, detto catabolismo, per mezzo del quale avviene la scomposizione dei materiali di riserva o delle sostanze specifiche dei tessuti in costituenti più semplici, con produzione di energia, gli ultimi dei quali vengono solitamente eliminati attraverso gli organi di escrezione (rene, intestino, cute, polmone).

In fisiologia si distinguono e si determinano due quote energetiche, che corrispondono rispettivamente: al metabolismo addizionale, che varia in rapporto al dispendio energetico occorrente per il lavoro muscolare, la regolazione termica, i processi digestivi; al metabolismo basale, che corrisponde al dispendio energetico minimo e irriducibile dell’organismo, ossia all’entità dei processi ossidativi globali di tutto l’organismo in condizioni basali (digiuno completo da almeno dodici ore, astensione da ogni farmaco, riposo clinostatico da almeno un’ora, temperatura ambiente sui 18-20 gradi e assoluta calma psichica). In tali condizioni il dispendio energetico è determinato dai processi ossidativi necessari al mantenimento della funzione cardiaca, respiratoria, del tono muscolare, della funzione dei reni, fegato, apparato digerente, delle ghiandole endocrine e della funzione nervosa.

Orbene durante il digiuno l’organismo tratta le risorse dei propri tessuti con la massima economia possibile per cui il metabolismo totale cala velocemente nei primi due giorni e successivamente più lentamente, ma non si arresta in quanto se ciò succedesse sopravverrebbe la morte. Dato che l’organismo è in riposo viene quindi ridotto, ma il metabolismo basale è mantenuto. “L’indice metabolico si riduce così sensibilmente che l’uomo può espellere calore fino a circa 2300 calorie al dì” (Shelton). In questo modo in digiuno esercita un’azione riequilibrante sui meccanismi biochimici di tutte le cellule del nostro organismo, riportando i tessuti ad uno stato di equilibrio omeostatico dinamico che è la base del benessere. Questo equilibrio omeostatico è proprio il risultato del bilancio fra i processi di assimilazione (anabolismo) e i processi di distruzione cellulare (catabolismo) con la conseguente eliminazione dei residui metabolici.

Se i processi assimilativi divengono più intensi dei processi distruttivi o di eliminazione, sia ha il disequilibrio che provoca l’accumulo e tutte le sostanze che una cellula non può utilizzare diventano tossiche. Abbiamo in tal modo un primo stadio di intossicazione cellulare che costituisce la base fisiologica per l’instaurarsi delle malattie; l’astenersi da cibo quindi consente al corpo di riposare e cominciare a eliminare le sostanze di scarto che si sono accumulate negli anni con l’alimentazione sbagliata e con lo stress continuato.

Ma vediamo come durante il digiuno, visto che il corpo ha bisogno sia di fonti energetiche, per il mantenimento delle funzioni biologiche fondamentali, sia di sostanze organiche per riparare l’usura continua degli organi e dei tessuti, l’organismo attinga alle proprie riserve di grasso, proteine, glicogeno, vitamine e sali minerali.

Dal punto di vista biochimico, i bisogni delle prime ventiquattro ore quando il carburante abituale, il glucosio, non è più disponibile nel tubo digestivo da cui proviene sono coperti dalla riserva di glicogeno epatico ma in seguito devono essere attivati al di fuori dei tessuti adiposi i trigliceridi in quanto costituiranno il combustibile principale nel corso del digiuno.

Le cellule muscolari, epatiche, renali, cardiache e la maggior parte delle cellule sono in grado di metabolizzare immediatamente i grassi e i loro metaboliti, ma le cellule del sistema nervoso centrale invece hanno bisogno di alcuni giorni di adattamento a questo nuovo combustibile ed esigono per tutto il tempo del glucosio, divenuto alimento raro e ciò spiega per quale motivo il periodo più difficoltoso del digiuno possa essere considerato quello dei primi giorni. In effetti, il grasso non può trasformarsi in glucosio a parte la sua componente di glicerolo ed è a partire dalle proteine endogene che il glucosio deve riformarsi. E’ per ovviare a tale momento critico, nel corso del quale il cervello richiede il suo carburante abituale, il glucosio, che le tribù nomadi del deserto, nel corso dei loro lunghi spostamenti, dove il digiuno è solitamente necessario, assumono un dattero e lo lasciano sciogliere in bocca non appena compare la sensazione di fame indotta dal sistema nervoso.

Con il passare dei giorni il sistema nervoso centrale si adatta alla combustione dei corpi chetonici, metaboliti prodotti a livello epatico quando un’eccessiva ossidazione dei lipidi è accompagnata da una scarsa disponibilità di zuccheri e che passano dal fegato in circolo e sono utilizzati (eccetto l’acetone che non può essere ulteriormente metabolizzato) come substrato energetico dal cervello, dal cuore e dai muscoli striati, e il catabolismo proteico diminuisce considerevolmente. Questa rappresenta la chiave per la comprensione dei meccanismi di risparmio proteico nel corso del digiuno, senza i quali esso non potrebbe prolungarsi al di la di qualche giorno. Teoricamente quindi il digiuno potrebbe durare senza alcuna difficoltà sino all’esaurimento delle scorte adipose. Negli stadi finali, a mano a mano che il grasso si esaurisce, l’energia deriva in quantità progressivamente crescente dall’ossidazione delle proteine; poiché le proteine derivano dai tessuti attivi del corpo è soltanto quando le riserve di grasso sono esaurite che si verifica un notevole consumo di proteine. Finché è possibile le proteine vengono economizzate come dimostra la graduale diminuzione dell’escrezione di azoto nei lunghi digiuni (Magnano).

Per misurare, infatti, il catabolismo proteico si utilizza convenzionalmente il bilancio azotato, misurato attraverso i valori di azoto presenti nelle urine, in quanto le proteine sono costituite da catene di molecole di aminoacidi, ciascuno dei quali contiene uno o più atomi di azoto e quest’ultimo è inutile per la produzione di energia e la quantità presente nelle urine è proporzionale a quella delle proteine che sono state demolite per ottenere energia nel corso del digiuno. In un uomo di media corporatura i valori medi di escrezione urinaria della parte azotata delle proteine oscillano all’inizio del digiuno da quattro a dodici grammi di azoto, che corrispondono a venticinque-settantacinque grammi di proteine al giorno nei primi cinque-dieci giorni di digiuno assoluto. Questi valori scendono a tre-cinque grammi di proteine dopo due tre settimane, al momento nel quale il meccanismo di risparmio funziona interamente. Siccome la muscolatura è costituita da proteine, nel corso delle prime tre quattro settimane di digiuno perde almeno un terzo della sua massa, ma il fatto che sorprende è che mantiene l’efficienza. Infatti, per l’effetto dell’azione depurativa del digiuno, in particolare sui liquidi extracellulari e sullo spessore delle membrane basali dei capillari, vi è un aumento dell’ossigenazione dei tessuti in generale e dei muscoli in particolare che consumano grandi quantità di ossigeno, costituendo fra l’altro il 40% della massa corporea totale. Le arteriole aumentano la loro portata e anche questo contribuisce a incrementare l’ossigenazione.

Ci sono variazioni nella quantità di proteine endogene catabolizzate nel corso del digiuno e in merito giocano un ruolo importante la massa adiposa, muscolare, l’apporto precedente di proteine, il sesso, lo stress; ma se si conoscono abbastanza bene le quantità di proteine utilizzate altrettanto non si può dire per la loro provenienza. Nella fase iniziale di astensione dal cibo vengono attivate proteine epatiche, renali, ma anche dal timo e dal tubo digestivo e quest’ultimo essendo a riposo si atrofizza in maniera reversibile e le proteine dell’epitelio possono essere catabolizzate senza danno non appena gli enzimi digestivi diventano superflui. In linea di massima la sintesi proteica rallenta e si riduce nel digiuno; i tassi plasmatici di prealbumina trasportata dalla tirossina e la proteina trasportata dal retinolo si abbassano durante un digiuno assoluto, ma altre proteine come albumina e globulina non subiscono sostanziali modificazioni. Le perdite di proteine del plasma comunque avvengono in modo equilibrato: la composizione totale del sangue non varia e quindi non si formano gli edemi da fame così frequenti invece nell’alimentazione cronicamente deficitaria di proteine (carestie) dove in questo caso si ha un abbassamento delle sieroalbumine e ciò comporta una diminuzione della pressione osmotica all’interno dei capillari con conseguente fuoriuscita di liquido interstiziale.

Le perdite muscolari cominciano a diventare sensibili solo con il prolungamento del digiuno, almeno venti giorni, quando iniziano a scarseggiare le riserve accumulate nel tessuto adiposo, nel midollo osseo, nel sangue e nel fegato; è allora che la muscolatura libera la maggior parte degli aminoacidi indispensabili durante il digiuno: da una parte la neo sintesi del glucosio, dall’altra le sintesi indispensabili al mantenimento delle funzioni vitali. Ma la muscolatura perde una certa quantità di acidi aminici senza peraltro diminuire la propria capacità di funzionamento e la sua contrattilità; e non si tratta di sensazione soggettiva ma prove di laboratorio evidenziano che effettivamente la forza può mantenersi e addirittura aumentare. Sono le persone ammalate che avvertono maggiormente la stanchezza e la conseguente astemia in quanto l’energia disponibile viene prontamente captata dai processi di autoguarigione. La perdita di peso varia ovviamente a seconda delle condizioni individuali e delle modalità con cui si effettua il digiuno ma in linea di massima nelle prime quattro settimane la muscolatura perde un terzo della sua massa; durante tale fase le arteriole vengono decompresse aumentando la loro portata e si avvicinano maggiormente alle cellule con le quali si scambiano l’ossigeno e i nutrienti, e allo stesso tempo i rifiuti metabolici sono più facilmente trasportati dalle piccole vene. La muscolatura può dunque funzionare come riserva proteica e ciò che segna il catabolismo proteico di origine muscolare è la presenza nelle urine del 3-metilistidine 0, un metabolite dell’acto-miosina (proteina contrattile del muscolo) che non viene rimetabolizzato.

Anche se meno ben studiate, ci sono altre fonti di proteine, definite patologiche, che possono essere utilizzate nel corso del digiuno, fra questa ricordiamo: i resti proteici intracellulari incompleti catabolizzati e che ingombrano, per così dire le cellule, uguali a quelli che si ritrovano nei processi di invecchiamento; le proteine extracellulari che rendono le sostanze fondamentali più spesse e tale ispessimento limita lo scambio gassoso e nutritivo tra cellule e con il sangue. Certo questa rappresenta una bassa percentuale delle sostanze proteiche catabolizzate durante il digiuno, ma potrebbero rappresentare un’importante aspetto terapeutico e disintossicante del digiuno. Quindi abbiamo visto che durante l’astensione dal cibo la massa muscolare diminuisce ma la sua struttura e le cellule rimangono le stesse, solo la massa totale diminuisce, il numero delle fibre rimane lo stesso; quando si digiuna si forza l’organismo ad entrare in autofagia, a nutrirsi cioè dei propri scarti. Tutti i tessuti nobili non vengono attaccati ma soltanto gli scarti e la cellula si rigenera. “I tessuti sono persi in ragione inversa alla loro utilità; prima i grassi e le escrescenze morbide; poi gli altri. I centri nervosi non vengono toccati. I tessuti anormali (tumori, cisti, ascessi, cellulite, edemi, trombi ecc.) deficienti in apporto nervoso e sanguigno, sono demoliti per primi” (Pizzi). I processi di autolisi si intensificano durante il digiuno per la necessità di far sopravvivere strutture organiche indispensabili a carico di altre che non lo sono. L’autolisi in questo caso è essenzialmente un meccanismo legato alla sopravvivenza. All’interno delle cellule vi sono enzimi legati a corpuscoli detti lisosomi che vengono liberati, determinando la dissoluzione parziale o anche totale della cellula. Quando una cellula muore per invecchiamento si liberano tali enzimi che portano all’autodigestione della struttura cellulare, i cui prodotti possono poi essere utilizzati da altre cellule, oppure eliminati. Visto che tali processi si intensificano nel corso del digiuno, Shelton ha supposto che l’autolisi possa essere considerata un processo fondamentale per la guarigione questo perché i tessuti patologici verrebbero individuati come potenziale fonte di nutrimento per gli organi sani e si avvierebbe a loro carico un precoce processo di autolisi. E’ probabile che il digiuno, rendendo il corpo più vitale e più attivi i processi di difesa, scateni un’aggressione selettiva contro cellule e tessuti aberranti che prima l’organismo non era stato in grado di mettere in atto, e questa distruzione avviene con le stesse modalità dell'autolisi generica che si potrebbe definire autolisi specifica di difesa (Magnano). Per Magnano ciò è condivisibile solo in parte: infatti se è vero che i tessuti sani vengono persi secondo una successione cronologica che tiene conto della loro utilità e importanza, non sempre i tessuti malati si riducono precocemente, come comporterebbe il loro valore nell’economia in generale dell’organismo. Questo è vero in modo particolare per i tumori che, se maligni, possono in qualche caso accrescersi durante il digiuno. Si potrebbe spiegare ciò con il fatto che i tessuti malati da degenerazione maligna non facciano più parte dell’unità vivente dell’organismo e non cooperino alle finalità vitali generali: possono in tal modo essere recalcitranti a subire un processo autolitico a favore degli organi vitali poiché tendono a nutrirsi a spese dei tessuti sani.

E’ innegabile comunque che il nostro organismo è in grado di individuare, riconoscere e attaccare cellule anomale, tanto che sono stati individuati anticorpi in grado di avviare processi distruttivi a loro carico. Questi processi li possiamo definire autolitici in quanto tali anticorpi sono i grado una volta penetrati all’interno della cellula di liberare gli enzimi contenuti nei lisosomi (organuli intracellulari contenenti numerosi enzimi quali l’idrolasi, specializzati nel degradare macromolecole e particelle provenienti dall’esterno della cellula). Questo tipo di autolisi la possiamo definire di difesa, come indicato dal dottor Magnano per distinguerla dall’autolisi da sopravvivenza; infatti la prima è volta specificatamente alla distruzione delle cellule devianti ed è quindi un meccanismo difensivo, la seconda invece, non distrugge le cellule ma preleva del materiale senza arrecarne danno. E’ quindi grazie all’autolisi di difesa che l’organismo è in grado di liberarsi dei tessuti aberranti, dagli accumuli patologici in genere, e il digiuno potenzia tale autolisi in quanto si determina l’aumento delle energie disponibili per le attività autoguaritrici; ma ricordiamo che tale autolisi non sempre si attiva perché è necessario che l’organismo abbia conservato una sufficiente vitalità e integrità; se questa è presente la cellula danneggiata o lesa è in grado di digerire le parti di sé che sono state danneggiate e dopo aver disintegrato tali parti lese può nuovamente sintetizzare membrane o parti nuove e continuare a vivere.

Sono processi che avvengono in modo netto; c’è uno stadio giunti al quale, se la cellula è troppo danneggiata non può più rigenerarsi; tuttavia fintantoché il nucleo e il materiale genetico della cellula sono sani essa può rigenerarsi procedendo per autofagia, cioè nutrendosi di se stessa, delle proprie membrane danneggiate. La cellula non si nutre di tessuti non lesi, ma solo delle parti guaste. Ciò ci autorizza a fare una trasposizione nel campo del digiuno poiché ciò che fa la cellula lo fa anche il nostro organismo. Quando si digiuna ci si nutre dei nostri residui e quindi li riciclano. Questo è un processo dell’organismo vivo, è un processo di rigenerazione cellulare molto reale. Osserviamo ad esempio che si può sezionare fino a quattro quinti del fegato e quest’ultimo è in grado di rigenerarsi completamente. Le cellule del tubo digerente dalla bocca all’ano si rigenerano annualmente, così pure le cellule ossee come quelle del cervello. Ci sono scambi di sostanze, le pareti vengono continuamente ricostruite, le membrane e le varie componenti vengono rigenerate e anche le cellule muscolari seppur non si riproducono hanno sempre scambio di sostanze. Ecco quindi che durante il digiuno la massa muscolare diminuisce ma la struttura e le cellule rimangono le stesse. Quando ci si astiene dal cibo l’organismo è forzato ad entrare in autofagia, a nutrirsi dei propri scarti e i tessuti nobili non vengono attaccati e la cellula si rigenera. Il corpo ha sistemi di sopravvivenza enormi ed è grazie a questa capacità che l’organismo può rigenerarsi. Le riserve di sali minerali vengono trattenute, trasferite, ridistribuite per cui non si verificano fenomeni di carenza minerale che invece si manifestano a seguito di diete squilibrate, questo perché quanto più il minerale è prezioso, tanto più viene trattenuto: si perdono notevoli quantità di sodio, fosforo e zolfo ma il ferro, il calcio ed il potassio vengono risparmiati e vi è un aumento in percentuale di questi elementi. Anzi sembra proprio che il digiuno ringiovanisca perché all’interno dei tessuti il sodio viene sostituito dal potassio. Inoltre da studi fatti presso il laboratorio di nutrizione dell’Istituto Carnegie di Washington sembra che, in un individuo a digiuno da trentun giorni il sangue possa, nella totalità dei suoi elementi, resistere all’azione dell’astensione dal cibo senza che si verifichi qualche modificazione patologica degna di nota, anzi alcune alterazioni preesistenti a carico del sangue possono scomparire nel corso di digiuni terapeutici. Si notano aumenti del numero di globuli rossi in persone anemiche. I valori ematochimici in persone non perfettamente sane possono inizialmente virare fuori dalla norma per poi tornare a valori migliori di quelli iniziali: è l’effetto delle tossine che dai tessuti si riversano nel sangue per poi essere eliminati.

Ciò che è stato esposto si riferisce ovviamente al digiuno idrico ossia a quello nel quale si ingerisce solo acqua minerale naturale, la più adatta a favorire l’espulsione delle scorie metaboliche, in quantità di due tre litri al giorno; si ritiene infatti che il vero digiuno sia quello in cui c’è la sospensione totale dell’apporto calorico. E’ dimostrabile infatti che ingerendo anche poche calorie, perfino in forma liquida, si costringe comunque l’organismo ad attivare processi metabolici circadiani di digestione, assimilazione ed escrezione che limitano notevolmente l’azione di drenaggio mesechimale che è l’obiettivo prioritario di questa forma di intervento.


Bibliografia

AA.VV. Biologia molecolare della cellula Zanichelli 1984
V.R. Young - N.Scrimshaw Fisiologia dei digiuno Le Scienze n. 41 1972
AA.VV. Il digiuno come salvarsi la vita Mediterranee 1981
S. Alain Digiunare per vivere in salute Musumeci 1985
R. Breuss Cancro e leucemie Ed. Medicine Naturali - Conegliano
A. Cott Digiuno via di salute Red Edizioni 1989
Gazzeri – Magnano Il segreto di lgea. Guida pratica al digiuno autogestito
Associazione Igienistica Italiana-Manca editore
F. Gazzola Il digiuno che guarisce De Vecchi Editore
Magnano - Cavalieri Digiuno fonte di salute MEB 1993
Tumori e cancri Edizioni Igiene Naturale 1985
F. Pizzi Igienismo, sciopero della fame, digiuno AAM 1980
H. M. Shelton Digiunare per rinnovare la vita, Edizioni Paoline 1990
Il digiuno può salvarvi la vita, Società Editrice Igiene Naturale 1986
Il digiuno terapeutico, Società Editrice Igiene Naturale 1987
Introduzione all'igiene naturale, Società Editrice Igiene Naturale 1986

2016/05/02

Digiuno per vivere più a lungo




Gesù fu condotto nel deserto per essere tentato dal diavolo. E dopo aver digiunato 40 giorni e 40 notti alla fine ebbe fame. Il tentatore gli disse: «Se sei figlio di Dio fa che queste pietre siano pane». Egli rispose: «Non di pane soltanto vivrà l’uomo». Giudaismo, Cristianesimo, Islam le maggiori religioni suggeriscono che si debba digiunare, qualche volta almeno, quando non per un mese intero dall’alba al tramonto. Vi siete mai chiesti perché? 

Topi e uomini che stanno senza mangiare per un po’ - bastano 16 ore, più o meno come nel Ramadan - si ammalano di meno. Ma andiamo con ordine.

Le 12 ore di digiuno

Siamo stati cacciatori e così si mangiava quando capitava, due o tre volte la settimana e nemmeno sempre. Un tempo procurarsi il cibo per l’uomo era così difficile che occorreva aguzzare l’ingegno e chissà che le nostre capacità cognitive non si siano evolute proprio da allora. Per prevalere sugli animali poi era importante per gli uomini poter comunicare tra loro, insomma serviva un linguaggio e l’abbiamo inventato. 

Quelli che riuscivano a procurarsi il cibo mangiavano comunque soltanto di giorno poi col calare del sole più nulla fino all’alba. Sono almeno 12 ore di digiuno. Con la luce artificiale è cambiato tutto si mangia sempre fino a tardi e c’è persino chi si alza di notte per mangiare ma l’uomo non è fatto per mangiare quattro volte al giorno. Siamo stati progettati per farlo quando capita e i nostri geni sono ancora quelli di allora. 

Del resto, se non fosse così perché dovremmo avere ancora oggi organi - il fegato per esempio - capaci di conservare energia per poi renderla disponibile quando serve? Le riserve di zucchero che si accumulano nel fegato sotto forma di glicogeno dopo 10-12 ore di digiuno tendono però a esaurirsi. Questo richiama acidi grassi dal tessuto adiposo, il fegato li trasforma in chetoni che tornano nel sangue e raggiungono muscoli e cervello per essere fonte di energia.

Astenersi dal cibo: nuovi neuroni

Parte del segreto dell’effetto favorevole del digiuno è proprio qui, tanto che basta astenersi dal cibo per 24 ore perché nel cervello si formino nuovi neuroni. Insomma il nostro organismo si difende dallo stress di stare qualche ora senza cibo adottando una serie di precauzioni che col tempo proteggono i nostri tessuti da guai peggiori. 

Stare un po’ senza mangiare fra l’altro riduce l’infiammazione, migliora la risposta immune e potenzia la capacità delle cellule di liberarsi da sostanze di scarto. E non basta, il digiuno rallenta persino la crescita dei tumori, almeno nei topi; anche le cellule del cancro hanno bisogno di energia ma non sanno farlo utilizzando i chetoni. Così in animali che mangiano un giorno sì e uno no il tumore non cresce.

Le nostre abitudini alimentari sono davvero corrette?

Come si conciliano gli effetti favorevoli del digiunare uno o due giorni alla settimana con le abitudini dell’uomo moderno? Malissimo. Ed è persino possibile che le abitudini alimentari che si sono consolidate negli ultimi cento anni siano sbagliate. Che evidenza c’è per esempio che la famosa “colazione abbondante del mattino” faccia bene? Quasi nessuna. E della merendina a scuola per i bambini? Nemmeno. 

Abbiamo più bambini in sovrappeso di qualunque altro paese d’Europa salvo Cipro. Le diete che vengono proposte prevedono di ridurre la quantità di calorie o che si mangino soltanto certi cibi; solo frutta e verdura per esempio oppure solo proteine e ancora dieta dissociata, dieta zona o dieta del gruppo sanguigno. In realtà tutti questi sistemi fanno perdere un po’ di peso all’inizio ma alla lunga non portano a nessun vantaggio.

Un toccasana per chi sta male

E allora? Si potrebbe provare a digiunare uno o due giorni la settimana oppure mangiare solo in certe ore del giorno e saltare qualche pasto (comunque bisogna bere, almeno due litri al giorno). Per diabetici, per chi soffre di cuore e forse anche per chi ha un tumore sarebbe un toccasana. Questo per lo meno è quello che pensano Mark Mattson di Baltimora e tantissimi altri scienziati americani ed europei - fra loro c’è anche un italiano, Luigi Fontana – che hanno pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences un lungo articolo per ricordare alla comunità scientifica i vantaggi e le basi teoriche del mangiare solo ogni tanto. 

Ma se uno sta bene e non ha problemi di sovrappeso? Di sicuro non lo sappiamo, serve altra ricerca per sapere se saltare qualche pasto aiuterebbe anche le persone sane. Si tratta di confrontare per esempio chi mangia tre volte al giorno con in più uno spuntino, con chi mangia solo a mezzogiorno e sera, con chi per almeno due giorni la settimana sta senza mangiare per 16 ore o anche di più. Se poi si dimostrasse che per quanto riguarda l’alimentazione noi uomini non siamo così diversi dai topi se ne dovrebbe prendere atto e adattarsi a stili di vita più compatibili con quello per cui il nostro organismo è stato progettato.

2015/11/15

Coerenza


Vi immaginate se negli anni ’70 un primo ministro italiano fosse andato in Cile a salutare il generale Pinochet? Impensabile, ma nessuno ha mosso ciglio né sollevato il problema per la recente visita del premier Matteo Renzi in Arabia Saudita. 

C’era da festeggiare la commessa ad imprese italiane per costruire parte della metropolitana di Riyadh e soprattutto i sauditi galleggiano su un mare di petrolio quindi tutti zitti, eppure basta entrare su Wikipedia per verificare come sotto il comando autoritario della dinastia saudita in Arabia si faccia rispettare rigorosamente la legge della dottrina wahabita (un'interpretazione fondamentalista del Corano). 

Il risultato è che molte libertà fondamentali della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo non esistono e la pena di morte ed altre pene sono state applicate spesso senza un regolare processo.

L’Arabia Saudita è uno di quegli stati in cui le corti continuano a imporre punizioni corporali, inclusa l'amputazione delle mani e dei piedi per i ladri e la fustigazione per alcuni crimini come la "cattiva condotta sessuale" e l'ubriachezza. L'Arabia Saudita è anche uno dei paesi in cui si applica regolarmente la pena di morte, incluse le esecuzioni pubbliche effettuate tramite decapitazione. 

Le donne saudite subiscono forti discriminazioni in molti aspetti della loro vita, compresa la famiglia, l'educazione, l'occupazione e il sistema giudiziario. Sulle strade pubbliche alle donne non era permesso fino a poco tempo fa di andare in bicicletta ed è loro tuttora vietata la guida di autoveicoli. 

L’Arabia è stata tra le ultime nazioni a dichiarare fuorilegge la schiavitù, ma nonostante questa proibizione formale persistono casi di schiavitù e di traffico di esseri umani. 

L'attività sessuale fuori dal matrimonio eterosessuale è illegale. La punizione per l'omosessualità, travestimento da donna o coinvolgimento in qualche cosa che faccia pensare all'esistenza di una comunità gay organizzata varia dall'imprigionamento alla deportazione (per gli stranieri), alle frustate e all'esecuzione. La libertà di parola e di stampa è limitata per proibire la critica al governo o l'approvazione dei valori "non-islamici". Il governo vieta ufficialmente la televisione satellitare, i sindacati e le organizzazioni politiche che sono proibite, così come le dimostrazioni pubbliche. 

L'Arabia Saudita proibisce tutte le manifestazioni e i culti religiosi tranne l'Islam ed è vietato celebrare una funzione religiosa non musulmana. Il governo può cercare nelle case di chiunque e arrestare o deportare i lavoratori stranieri che possiedono icone o simboli religiosi, come ad esempio il vangelo o un rosario. “Pecunia non olet” ma anche in questi atteggiamenti vi è la conferma della nostra subordinazione paurosa e silenziosa all’estremismo islamico perché – non dimentichiamolo - di fatto l’ ISIS è finanziata anche dai principi sauditi.

2015/04/21

Rifugiati


L'onda della marea dei rifugiati, non un semplice passo di oche selvatiche, gli occhi di carbone nei vagoni merci, le facce smunte, e in particolare lo sguardo fisso dei bambini emaciati, gli enormi fardelli che traversano i ponti, gli assali che cricchiano con un suono di giunture e di ossa, la macchia scura che passa le frontiere sulle carte geografiche e ne dissolve le forme, come succede ai corpi dei morti dentro le fosse di calce, o come fa il pacciame luccicante che si disfa sotto i piedi in autunno nel fango, mentre il fumo di un cipresso segnala Sachenhausen, e quelli che non stanno sopra un treno, che non hanno muli o cavalli, quelli che hanno messo la sedia a dondolo e la macchina per cucire sul carretto a mano perché da tempo le bestie hanno lasciato i loro campi al galoppo per tornare alla mitologia del perdono, alle campane di pietra sui ciottoli della domenica e al cono della guglia del campanile aranciato che buca le nubi sopra i tigli, quelli che appoggiano la mano stanca sulla sponda del carro come sul fianco del mulo, le donne con la faccia di selce e gli zigomi di vetro, con gli occhi velati di ghiaccio che hanno il colore degli stagni dove posano le anitre, e per le quali c'è un solo cielo e una sola stagione nel corso di un anno e è quando il corvo come un ombrello rotto sbatte le ali, si sono tutti ridotti alla comune e incredibile lingua della memoria, e questa gente che non ha una casa e nemmeno una provincia parla delle fonti limpide e parla delle mele, e del suono del latte in estate dentro le zangole piene, e tu da dove vieni, da quale regione, io conosco quel lago e anche le locande, la birra che si beve, e quelle sono le montagne dove riponevo la mia fede, ma adesso sulla carta, che è simile a un mostro, altro non si vede che una rotta che ci porta verso il Nulla, anche se sul retro c'è la veduta di un posto che si chiama la Valle del Perdono, dove il solo governo è quello dell'albero dei pomi e le forze schierate dell'esercito sono gli striscioni di orzo all’interno di umili tenute, e questa è la visione che a poco a poco si restringe dentro le pupille di chi muore e di chi si abbandona in un fosso, rigido e con la fronte che diventa fredda come le pietre che ci hanno bucato le scarpe e grigia come le nuvole che, quando il sole si leva, si trasformano subito in cenere sopra i pioppi e sopra le palme, nell'ingannevole aurora di questo nuovo secolo che è il vostro.

(Derek Walcott)

2014/05/24

Chi mi ama mi segua


La vita assume significato solo se hai uno scopo che ti guida. Senza uno scopo, non saprai perché stai vivendo, non riuscirai a dare significato alle cose che ti accadono. Non è che devi sempre avere in testa quello che vuoi da ogni singola situazione da adesso e per sempre! Ma di chiedertelo per le situazioni meritevoli. Come nella scelta del lavoro, del partner, della gestione del tuo benessere fisico e mentale. Ci sono cose che è bello e giusto che ti sorprendano e ti stupiscano. Ci sono cose invece che vuoi direzionare, influenzare e realizzare. Allora è bene chiederti: "Che cosa voglio realmente da questa situazione?"

Se non hai uno scopo chiaro e definito, rischi di rimanere in balia degli eventi. E' come salire in auto e, a motore acceso e marce inserite, schiacciare l'acceleratore ma senza toccare il volante. L’auto si muove, ma senza una direzione: è solo uno spreco di energia, non porta da nessuna parte, è pericoloso per te e per chi è sulla tua strada. È come molti vivono la loro vita. Si agitano, fanno mille cose, ma senza una direzione precisa. Persone che faticano tutto il giorno, tutti i giorni, ma senza sapere perché, per chi, e dove li avrà portati tutto questo. Senza essere veramente impegnati in qualcosa di importante per la loro vita.

Le persone ti seguiranno solo se sai dove stai andando, e se quello sembra un buon luogo dove andare. Conoscere la direzione offre sicurezza, e la sicurezza crea il margine di vantaggio del vincente. La percezione che le persone hanno di te nasce dal grado di sicurezza che trasmetti. Le persone sono attratte in modo naturale dalle persone sicure. E la tua sicurezza è data dal conoscere la direzione, dall'avere uno scopo nella vita. Nel perseguirlo e nel far percepire che tu sei una persona che sa dove sta andando e che quello è un posto migliore!


Per raggiungere ciò che vuoi devi esserne sicuro. Non basta desiderarlo, lo devi volere, e devi credere di essere capace di ottenerlo e di meritarlo. Presto o tardi coloro che vincono sono coloro che credono di poterlo fare. Anche se non sai ancora come farai, devi credere di poterci riuscire. Di poter diventare la persona capace di realizzare ciò  che vuoi. Tutto si basa sul tuo grado di sicurezza. Se sei sicuro tutto ti riesce meglio. Quando pensi a un nuovo obiettivo da raggiungere, ci sono tre livelli di convinzione necessari per poter sviluppare il giusto grado di sicurezza. Per ognuno dei tuoi obiettivi, devi pensare intensamente che: è possibile, ne sei capace e te lo meriti. L'unico limite a quanto in alto possiamo andare, è quanto crediamo di poter salire.

2013/05/13

Uomini come formiche

Hong Kong, grattacieli come formicai

Non ricordo in quale testo o libro ho letto di questo argomento, il tempo passa e la memoria inizia a dare chiari segnali di superlavoro, insomma divento vecchio. Ho trascorso tutta la mattina a cercare di fami venire in mente un brano di un autore americano, un brano musicale. Sfortuna vuole che non ricordi ne il titolo del brano ne tantomeno il nome dell’autore, dopo frenetiche ore alla fine ho rinunciato alla ricerca altresì infruttuosa ripromettondomi di cercar meglio fra le cose di casa per scoprire il furfantello che ha cercato di nascondersi. 

Adesso qualcuno si starà chiedendo cosa c’entra questo discorso a proposito della memoria con l’argomento del mio articolo. C’entra, eccome se c’entra, le formiche, come si sa, sono insetti dotati di un’intelligenza collettiva molto complessa. La memoria selettiva di cui dispongono non è come la nostra ma costituita da impulsi elettrici che vengono scambiati attraverso il contatto delle estremità tattili, cioè le antenne, con altre simili dello stesso formicaio. In questo modo comunicano e non come si era sempre pensato attraverso tracce olfattive rilasciate da ogni operaia durante il cammino alla ricerca del cibo. Quindi le formiche non dimenticano perché non viene memorizzata l’informazione in un cervello come potrebbe essere il nostro ma in una serie di accumulatori elettrici che rilasciano le informazioni secondo l’uso che se ne vorrebbe fare. Insomma un concentrato di tecnologia che noi, poveri umani ci sognamo.  

Meditavo dunque su questo assioma uomini e formiche, chiedendomi quali possano dunque essere le differenze esistenziali. Noi non siamo tutti formiche come le formiche non si atteggiano a essere degli umani, semmai il paragone, virtuale s’intende, è dall’alto verso il basso, dal nostro punto di vista verso il loro, dato per acquisito il fatto che la formica non pensa in grande, si accontenta di quello che ha e segue la via che qualcuno, la formica regina o la natura, ha tracciato per lei. Le similitudini nella vita di uomini e formiche non si limiterebbero tuttavia a questo. Avete guardato, dato un’occhiata fugace alla fotografia all’inizio di questo articolo? Quella foto mostra una fetta di cielo come si vede guardando in alto in uno qualsiasi dei quartieri di una megalopoli come Hong Kong, ora che l’avete guardata con maggiore attenzione non vi viene in mente che noi, piccoli umani siamo in verità grandi formiche che vivono quasi alla stessa maniera? 

Compreso il concetto? Non siamo tutti regine come non siamo tutti calabroni, la massa, se vogliamo continuare a seguire il paragone, è costituita da formiche operaie che, giorno dopo giorno si arrabbattano per arrivare alla fine della giornata, comunicando con i propri simili, scambiando informazioni in quello che organizativamente parlando potrebbe essere paragonato a un formicaio. Certo un bel formicaio, con negozi, divertimenti, ospedali, sale da ballo e anche cinema, gli uffici dove portare il nostro contributo, le banche dove prelevare il premio delle fatiche giornaliere, il camposanto dove andare a riposare dopo una vita di sacrefici. Si nasce, si vive, si muore, come le formiche che in verità non dispongono di divertimenti e amenità varie ma che il loro lavoro per la comunità lo svolgono lo stesso, con affetto e dedizione anche senza stipendio, magari con la possibilità concessa dall’alto di leccarsi gli avanzi di chi comanda, e quelli delle larve e il sogno nemmeno troppo nascosto di diventare a loro volta regina. 

Mi sono anche ricordato di aver letto in un libro di scienze, antiche poiché oggi i libri non li stampano quasi più visto il dilagare di internet e wikipedia, in quel libro si parla di vite che si sovvrappongono, che tutti gli esseri viventi hanno lo stesso scopo, lo stesso obbiettivo: nutrire la prole, crescere e moltiplicarsi. Non si sa bene fino a quando, almeno fino al momento in cui un avventato umano mette il piede sul formicaio distruggendolo, oppure il terrorista di turno butta giù un paio di palazzi con tutte le formiche... oops, con tutti gli umani all’interno per vendicarsi. Alla fine le trame della vita di chi abita il pianeta finiscono per essere sempre le stesse, le storie di base sono in verità poche, non tante. 

Tutto si ripete, tutto si replica all’infinito con pochi microscopici cambiamenti. Le vite umane e le vite delle formiche come se fossero la trama di una fiction, ripetitive e prevedibili. Rimescoliamo le stesse vite, le nostre e quelle delle formiche e alla fine non sappiamo più chi siamo, uomini o formiche?  





2013/01/13

Vivere per vivere?

Una spiaggia di sabbia bianchissima a Los Roques, Venezuela
È una storia di questi giorni, e comunque sarebbe riduttivo chiamarla storia, diciamo un evento che porta a pensare a ponderare con attenzione i valori della vita, la vita di tutti i giorni. 

Il quattro gennaio scompare dai radar un piccolo aereo da turismo con a bordo quattro italiani a cui vanno a aggiungersi i piloti.
In tutto sei persone forse sette di cui non si sa piú nulla. Dove sono finiti? I media ne parlano per qualche giorno, scrivono qualche articolo, fotografie e testimonianze forse perchè a bordo oltre ai soliti malcapitati c’è il figlio di qualcuno conosciuto, importante.  

In Venezuela su quella rotta maledetta che dall’arcipelago delle Los Roques (dallo spagnolo dovrebbe tradursi come Le Rocce) porta a Caracas capitale del Venezuela, una nazione governata con la carota e il bastone (in particolare quest’ultimo) da Hugo Chavez, sono già spariti cinque aerei in diciannove anni. Troppi incidenti per una breve rotta, anche se molto frequentata, troppi per un aeroporto votato al turismo anche se fatiscente, e ancora troppi per un Paese che dovrebbe essere il primo produttore sudamericano di petrolio, troppi per non fermarsi a considerare il rischio di non tornare piú da una vacanza di sogno alle Los Roques.

Domanda quindi lecita: perché le isole Los Roques, cosa c’è di magico e fatale da attirare così tanti turisti ogni anno? Diciamocelo seriamente, ogni anno a Los Roques i turisti sono alcune centinaia di migliaia, non tantissimi ma nemmeno pochi. C’è di tutto, dalla pousada a basso prezzo all’hotel di lusso, hotel dove probabilmente alloggiavano gli ultimi scomparsi del 4 gennaio.

Considerando però la distanza, il viaggio in aereo Roma Caracas e poi il trasferimento su carrette dell’aria, alla fine chi trascorre una vacanza nell’arcipelago è sicuramente gente che se lo può permettere. E qui entra il mio discorso, entra brutalmente come un dardo lanciato da una balestra nella classica mela del Guglielmo Tell di turno. Perchè rischiare la vita per vedere un piccolo paradiso?
Che senso avrebbe, considerando che tutte le isole Caraibiche sono da sogno e molte permettono un sano turismo senza alcun rischio sia nel volo sia di permanenza?

Perchè la vita viene così mal considerata quando si decide di andare a visitare un atollo sperduto in un mare lontano, che siano le isole di Los Roques che quelle della Micronesia finisce sempre così che non si da abbastanza valore alla propria vita e ci si affida al caso e alla fortuna che tutto possa andar bene.
Che pessima idea, viaggiare è sempre un rischio anche quando il vettore aereo è conosciuto come sicuro. Ho viaggiato moltissimo in aereo, sono oltre quarant’anni che volo con regolarità almeno tre o quattro volte all’anno. Ho sempre considerato che la mia vita valesse più di una vacanza speciale in qualche punto sperduto del mappamondo, mi sono sempre rifiutato di volare con carrette del cielo, e quando non c’erano alternative, ho rinunciato alle proposte piuttosto di veder terminare anzitempo la mia vita. Che valore dobbiamo dare a questa nostra vita? Non c’è errore più banale che prendere un aereo di una sconosciuta compagnia aerea di cattiva fama e sperare che possa portarci sani e salvi fino alla meta. Queste sono speranze di quelle che vorreste sostenere solo a parole mentre, nel vostro intimo, continuate a pregare che non possa capitare a voi.  Lo so che stiamo parlando di probabilità, che vale la pena rischiare perchè sono i numeri a dirlo ma non quando si hanno alle spalle figli e famiglie che aspettano il nostro ritorno, e se il ritorno non avviene perchè qualcosa è andata male, capita che altri continuino a ricadere nella stessa scellerata opzione soprattutto quando il caso ci si mette di mezzo. 
Allarghiamo quindi il discorso al valore della vita, vivere per vivere o vivere per essere ricordati? Certo che l’illusione di vivere per sempre, se non fisicamente ma nel ricordo di chi ci vuole bene, di chi ci apprezza sarebbe il massimo. Chi vuole vivere per sempre non bada ai rischi della vita, perchè sa che dopo la vita terrena viene la vita del ricordo. Come non dimenticare i grandi filosofi del passato: Platone, Socrate, Aristotele eppure qui non si discute della vita futura, bensì di quella presente.

La vita umana ha un gran valore, è assodato. Ogni persona svolge un certo ruolo nella comunità e questo fornisce anche uno scopo alla vita umana. L’intera umanità, nel suo insieme, ha poi un altro grande scopo da realizzare, ma questo è un argomento che dovrebbe essere approfondito in altra occasione. Qualunque sia lo scopo della vita dobbiamo cercare di vivere al meglio e di conservare attraverso l’attenzione, la comprensione, la cura il nostro vivere, felici o infelici non dovrebbe essere importante anche se, obiettivamente, meglio vivere felici. Le cause che impediscono di essere felice sono molto numerose e possono essere divise in tre grandi categorie: cause dovute ad eventi imponderabili o naturali, quelle prodotte dalla volontà altrui, quelle determinate dalla nostra stessa volontà e qui penso ai carcerati, a quelli condannati a pene detentive per tutta la vita, certo non possiamo pensare o credere che siano felici.
Ciò nonostante anche a loro è richiesto di vivere una vita, quello che rappresenta il viverlo anche se si tratta di una vita da reclusi, in quel caso magari con la speranza di poter uscire prima che la vita abbia termine e rigodere di quella sensazione senza fine che è la libertà ma è moralmente accettabile la valutazione sul valore della vita umana? 

Secondo il mio modesto avviso il valore della vita umana non è un termine assoluto ma relativo, e può essere confrontato con quello degli altri. Il valore della vita umana non è costante nel tempo, e cambia in base al proprio comportamento. Non dipende da ciò che si è ma da ciò che si fa. Siamo quindi obbligati al rispetto delle regole e delle leggi anche se questo determina una limitazione della nostra libertà. Ma è libertà disporre della propria vita come si preferisce anche se questo porta a una fine anticipata di essa a causa dei nostri errori o valutazioni errate o superficiali? È giusta la vecchia regola che sancisce: “la mia libertà finisce dove comincia quella degli altri” oppure non è sufficiente, perché troppo limitativa? Capisco che qualcuno leggendo l’articolo stia già pensando che mi sto arrampicando sugli specchi, un terreno minato di ragionamento che esula dai significati tradizionali e spazia in concetti astratti che hanno poca attinenza con la realtà ma il punto è proprio questo: posso io decidere della mia vita senza curarmi di quello che potrebbe accadere nel caso dovesse finire anzitempo causa una mia scelta scellerata che porta a una fine anticipata? Secondo il mio credo e punto di vista no.

E qui torniamo all’episodio del quattro gennaio. Potevano le persone che si sono imbarcate su quel volo in partenza da Los Roques decidere della propria vita senza curarsi affatto di quello che indubbiamente potevano lasciarsi alle spalle? Il dolore, l’ansia, lo sconcerto, il desiderio, l’incredulità, la paura del domani e del presente senza contare, nel caso di uno degli scomparsi, tutti i problemi legati alle responsabilità nei confronti degli altri familiari, i figli, i fratelli, i genitori, l'azienda, la comunità?
Era lecito rischiare la vita? 

L’uomo non è completamente libero, soprattutto non è libero di provocare direttamente o indirettamente del male alla società. Il costo della felicità, e del benessere collettivo, è pagato da una limitazione della libertà e felicità individuale. Il nostro valore, aumenta con la capacità di limitare la nostra libertà, e in particolare di quanto siamo capaci a limitare il nostro egoismo, per favorire la nostra collettività. C’è stata questa considerazione di responsabilità quando i passeggeri di quel volo maledetto hanno deciso di partire? Hanno considerato che potevano anche non arrivare? Non si tratta di un bieco calcolo statistico, i numeri parlavano chiaro, le probabilità che potesse avvenire un incidente erano altissime, eppure questa possibilità non ha nemmeno sfiorato le loro menti, il pensiero alla bella vacanza riempiva tutto, impossibile pensare a altro.

La vita è rischiare, è cadere e rialzarsi, è non esitare. 
La vita è un gioco forte e allucinante.
La vita è per vivere!


2012/09/29

Il Senso della Vita


Titolo emblematico che deve far pensare.
Non voglio scomodare i pensatori dello scorso secolo tutti impegnati a mostrarci la via per una vita a senso orientata verso i classici valori che possano includere la famiglia i figli e creare valori materiali per i propri discendenti.

Oggi voglio parlare di cosa è lecito aspettarsi dalla vita nel momento in cui qualcuno - i genitori - decide che è venuto per voi il momento di nascere fino a quando qualcun altro - la vita - deciderà che è venuto il vostro momento. Non sono fatalista, ognuno si costruisce mattone per mattone la propria vita che in parte è già disegnata da quel bagaglio biologico che il DNA assegna e che difficilmente si potrà modificare.

Perché questo pensiero?
Difficile da tradurre in semplici parole, sono una persona che legge molto, in questo periodo leggo i forum, sono uno scrittore, penso e vivo a contatto della gente e ho notato che il pensiero comune oggi in Italia è quello di fuggire dal bel paese per cercare un lavoro umile, dignitoso. Perché umile o dignitoso o perché entrambi?
Leggo sul mio dizionario preferito online la definizione di umilta':
umiltà[u-mil-tà] s.f. inv.
1 Mancanza di orgoglio, di superbia, virtù di chi riconosce e accetta i propri limiti SIN modestia
2 Atteggiamento rispettoso, sottomesso SIN deferenza: comportarsi con u. verso un superiore
3 Bassa estrazione sociale: vergognarsi dell'u. dei propri natali
4 Caratteristica, condizione di ciò che è semplice, modesto, povero: u. del tenore di vita
• sec. XIII[/quote]
e poi quella di dignitoso:
dignitoso[di-gni-tó-so] agg.
1 Di persona, che ha il senso della dignità e che, quindi, non si abbassa a comportamenti volgari o arroganti: un uomo molto d.; estens. di aspetto, atteggiamento e sim., che denota compostezza, misura: dolore d.
2 Che rispetta il valore, i meriti della persona SIN decoroso: paga d.
3 estens. Di qualità intermedia tra l'ottimo e lo scadente, tra il misero e il lussuoso SIN accettabile, passabile: albergo d.
• avv. dignitosamente, in modo d.
• sec. XIII
a cui aggiungiamo quella di dignita':
dignità[di-gni-tà] s.f. inv.
1 Considerazione in cui l'uomo tiene se stesso e che si traduce in un comportamento responsabile, misurato, equilibrato SIN rispettabilità, decoro: d. umana; dimostrare una grande d.; estens. compostezza, decoro che denota rispetto per sé e per gli altri: volto, pieno di d.
2 Importanza che viene a una cosa dal significato spirituale, culturale, sociale che l'uomo le annette, e che la rende degna di rispetto: lo richiede la d. dello Stato
3 Carica, ufficio importante
• sec. XII

Una volta chi lasciava l’Italia emigrando sostanzialmente nelle Americhe, o in Europa oppure in Australia lo faceva per andare a cercar fortuna che, tradotto in un linguaggio moderno, significava andare a guadagnare di più di quello che si potesse mai aspirare restando in patria. È chiaro, ma non è chiaro per quale motivo gli italiani che desiderano oggi andarsene, debbano per forza aspirare a posizioni dignitose o umili, per quale motivo si cerca una condizione la più bassa possibile in una scala di valori assolutamente senza limiti?

E qui torniamo al senso della vita.
Prole, continuare “il genere umano”, creare i valori materiali per i discendenti. 
È inutile dilungarsi sui valori della famiglia come è inutile parlare dela prole, non necessariamente vanno intesi con la famiglia, qui parliamo del creare valori materiali per i discendenti.

Einstein dice: “Colui che considera la sua vita destituita di qualsiasi significato, non solo è infelice, ma è anche incapace di vivere”.  Egli parte dal presupposto che il conoscere il perchè delle cose e soprattutto il senso della vita è l’assillo che affiora spesso nella ricerca dell’uomo. Nell’esperienza del singolo, nel suo impatto con la nascita, la morte, la sofferenza, l’interrogativo si ripropone, magari con veemenza. Pertanto, è ragionevole e importante trovare un orientamento per la vita.

Perché vivere dunque? Ogni uomo volendo ragionevolmente progettare la sua vita, va alla ricerca di un senso, di una ragione per agire. La domanda fondamentale è: Perchè vivere? Essa si fa ancora più pressante di fronte alle diverse  situazioni “insensate” ed assurde della creazione (la condizione transitoria delle creature: nascono, soffrono, muoiono, si eliminano a vicenda in nome dell'ecosistema, soccombono a causa di eventi catastrofici della natura) e della storia (le contraddizioni degli uomini espresse nel male che essi compiono: guerre, violenze, ingiustizie).

Il saper creare valori materiali per i discendenti potrebbe anche includere avere successo, una vita di successo che mal si adatta all'umiltà' e ancor meno al dignitoso.
Perché' ne con una ne con l'altra si riesce a emergere in questa nostra società fatta, composta, di individui che vogliono venir fuori dalla melma primordiale che li avvolge e diventare un qualcuno, non importa se ricco o povero, un qualcuno riconosciuto, additato e perché no, ricordato nei secoli. E questa è la vera ricchezza.
Restando al presente che cos’è la nostra vita? E' un gioco? Il bene e il male sono null’altro che sogni. Il lavoro, l'onestà sono fiabe per donnette? la verità è che il senso della vita esiste. Esso è lo sviluppo della coscienza qualitativo e quantitativo.
Lo sviluppo qualitativo comprende il perfezionamento intellettuale ed etico, nonchè l'affinarsi della consapevolezza. Quello quantitativo è l’accrescimento diretto della quantità dell’energia della consapevolezza fine. 
Qualitativo e quantitavo non vanno d’accordo con umiltà e dignitoso.
Non vanno nemmeno d’accordo con il ricercare un lavoro decisamente inferiore a quello che potremmo trovare utilizzando semplicemente le nostre conoscenze e l’esperienza (per chi ne possiede in quantità apparentemente illimitata).
Il sospetto che si fa strada nella mente riporta alla ragione dell’emigrare, non già espatriare per cercar fortuna ma per sopravvivere in questa Italia che a torto viene considerata in declino, forse siamo noi suoi abitanti a essere in declino e fuggire è solo non voler riconoscere di quanto in basso siamo arrivati.

Quando ero giovane, imberbe e di belle speranze pensavo che solo attraverso lo studio si potesse trovare la chiave della felicità, della fortuna, della ricchezza. Il concetto mi era chiaro pur nella sua complessità: un buon titolo di studio porta un buon lavoro che a sua volta porta a diventare ricco in tempi relativamente brevi.
Giusto e sbagliato.
È pur vero che lo studio apre a maggiori probabilità di ambiziosi posti di lavoro, da manager, direttore, CEO e via discorrendo, ma è altresì vero che per essere imprenditori non occorre essersi laureati a Harvard. Che poi essere colti serva anche nel mondo imprenditoriale non è un concetto ma una realtà, basterebbe guardare a chi conduce oggi la Fiat, la Pirelli, le grandi industrie italiane che hanno origini “familiari” sono gestite da managers con almeno un master in una università di prestigio.
Ritornando al nostro senso della vita rimane evidente che a decidere di partire sono per la maggioranza quegli italiani che in patria non hanno saputo dare un senso alla propria vita, che si rendono conto degli errori compiuti in passato, da loro stessi o dai parenti da cui discendono. È però necessario analizzare questa esigenza, questo desiderio come ultima spiaggia, mollare tutto e partire alla ricerca di un’altra vita, non importa se meglio o peggio di quella attuale, o forse si, sicuramente meglio perché è quello che si crede, tanto peggio dell’Italia non sarà mai, dimenticandosi che lasciare la propria Italia è come fare un salto nel buio, senza sapere dove si atterra.